Nel
1997 ha inizio nel nostro paese un periodo contrassegnato da un
forte incremento dei valori immobiliari, comune a buona parte dei
paesi
Europei più ricchi. Il prezzo medio delle abitazioni nel
nostro paese è
aumentato, dal 1997 al 2007, del 108% nelle 13
maggiori città, e del 75% nelle
città di medie dimensioni, mentre
quello degli affitti nello stesso periodo è
cresciuto del 71% nelle
grandi città, del 48% in quelle di medie dimensioni.
Nello
stesso periodo il reddito nominale non è aumentato neanche del 30%.
Questi
sono gli anni delle grandi speculazioni, dei progetti faraonici,
delle cattedrali nel deserto.
L’aumento
dei prezzi delle case produce e ha prodotto numerosi effetti. Si
verifica in primo
luogo una grande redistribuzione di ricchezza a
vantaggio dei possessori di
capitali e a danno del fattore lavoro, e
si riduce le capacità di consumo delle
famiglie, che non sono
propense ad usare la casa come garanzia per indebitarsi
per
acquistare beni di consumo. I centri storici perdono abitazioni,
sostituite da
uffici. Le famiglie si spostano nelle più abbordabili
periferie o nei piccoli
comuni situati nelle cinture delle grandi e
medie città, contribuendo così a
congestionare il traffico da e
verso gli uffici delle città e ad aumentare i livelli di
inquinamento.
Nei
grandi centri aumenta l’età media dei residenti e si riduce
la
dimensione media dei nuclei famigliari. Si rafforza, infine, la
rigidità della
struttura sociale, perché aumenta il divario di
prospettive e di tenore di vita tra
chi ha la possibilità di
ricevere in eredità l’abitazione e chi, invece, deve
rinunciare
ad una parte notevole del proprio reddito complessivo del ciclo di
vita per comprare o affittare un’abitazione.
Nel
corso degli ultimi trent’anni la quota di famiglie italiane che
vivono in
affitto si è dimezzata: erano circa il 40% del totale
alla fine degli anni ’70, per
passare al 30% un decennio dopo, e
al 20% circa ai giorni nostri. L’uscita dalla
condizione di
affittuario non ha caratterizzato in modo omogeneo tutti i gruppi
sociali, perché sono state soprattutto le famiglie a reddito
medio-alto a passare
dall’affitto alla proprietà.
Per chi vive in
affitto, gli ultimi quindici anni sono
inoltre caratterizzati da un
incremento molto significativo nel rapporto medio
tra canone e
reddito disponibile. Fino all’inizio degli anni ’90 questo
rapporto è
rimasto vicino al 10%, da allora ha cominciato a
crescere, quindi prima del
boom immobiliare, ed oggi sfiora, in
media, un terzo del reddito disponibile
familiare.
L’inevitabile
effetto di una dinamica delle
locazioni superiore a quella dei
redditi è l’aumento della quota di famiglie in
affitto che si
trovano in condizioni di povertà. Se definiamo come povera una
famiglia con reddito disponibile inferiore al 60% del reddito
equivalente medio
(definizione Eurostat), fino alla fine degli anni
’80 circa una famiglia su quattro
in affitto era povera. Oggi
questa percentuale è salita fino a un terzo del totale degli
affittuari. Viceversa, il disagio abitativo può interessare
anche
famiglie del ceto medio, soprattutto negli ultimi anni, in cui la
crescita dei
valori immobiliari e degli affitti rende difficile, per
chi abbia una famiglia
numerosa e non disponga di un capitale,
acquistare un appartamento o sostenere l’onere di un affitto per
una casa di dimensioni corrispondenti alle
proprie esigenze. Per le
giovani generazioni, che spesso dispongono di lavori
precari con
bassi salari, il boom immobiliare ha ridotto la possibilità di
acquistare casa o di affittarla.
Altri
due fenomeni sociali tipici degli ultimi anni presentano riflessi
importanti
sulle esigenze abitative della popolazione: il primo è
l’immigrazione, il secondo è la crescente instabilità delle
famiglie. Entrambi questi fenomeni si inseriscono in una situazione
che sarebbe comunque per lo meno di allarme sociale.
Valutiamo
che sia il 1993 l'anno in cui si diede inizio a questa catastrofe,
quando il governo Amato di fatto abolì l’equo canone, a favore dei
patti in
deroga. Infine, nel 1998 i canoni di locazione furono
completamente liberalizzati.
L’obiettivo dichiarato era la
necessità di rivitalizzare un mercato che da troppi
anni ristagnava
a causa dell’offerta insufficiente. L'obbiettivo reale era
garantire profitti più alti agli speculatori, nonostante questi
fossero chiaramente insostenibili nel lungo periodo. La contropartita
formale alla liberalizzazione selvaggia degli affitti fu
l'istituzione dei contratti concordati, che però non hanno trovato
praticamente alcuna applicazione, essendo sostanzialmente una misura
di facciata. Non c'è nessun obbligo infatti per il proprietario di
stipulare contratti concordati che si rivelano decisamente meno
proficui a fronte di vantaggi minimi.
Oggi
lo Stato e gli enti locali si limitano sempre più ad
interventi
(per altro largamente insufficienti) a favore delle fasce più povere
della popolazione, incapaci, per
scarsità di reddito, di trovare
sul libero mercato una sistemazione adeguata.
Soldi pubblici che
finiscono direttamente nelle tasche dei privati dunque.
Il
mercato è stato liberalizzato, ma ciò non ha prodotto un incremento
del
numero delle abitazioni disponibili per l’affitto. Chi ne
aveva la possibilità è uscito dal mercato dell’affitto,
sfruttando il
lungo periodo di bassi tassi di interesse. Sono così
rimaste in affitto soprattutto
le famiglie più deboli, che
sperimentano oggi tassi di disagio abitativo
significativamente
superiori rispetto all’inizio degli anni ’90.
L’ultimo
trentennio è poi connotato dal crollo dell’edilizia residenziale
pubblica:
dalle circa 20.000 abitazioni costruite all’anno con
finanziamento interamente
pubblico negli anni ’80, si è passati
passati a 1.500 in media nei primi anni del
nuovo millennio. Nello
stesso periodo, la media annua del numero di abitazioni
costruite
con contributo pubblico è passata da 40.000 a circa 11.000.Gli
strumenti diretti di intervento nel mercato degli affitti,
cioè la
costruzione di nuove case popolari, difficilmente potranno essere
risolutivi, perché richiederebbero risorse molto ingenti e tempi non
brevi.
Non
è stata la crisi a creare il problema abitativo, ma vent'anni di
politica criminale. Oggi la misura è colma, e solo questione di
tempo (poco) perchè il collasso evidente si generalizzi in rivolta.
La requisizione, l'esproprio, il blocco degli sfratti e
l'autorecupero sono necessari per evitare una catastrofe sociale.
L'aumento
dei prezzi delle case produce inquinamento, spopolamento dei centri
storici, concentrazione della ricchezza a favore dei possessori di
capitali a danno del fattore lavoro, diminuzione dei consumi, povertà
diffusa.
Ecco
perchè è necessaria un'opera di redistribuzione da parte dei
pubblici poteri, deputati a preservare il corretto sviluppo della
società.
Altrimenti
dovranno essere i Movimenti a riappropriarsi di quel che gli spetta.
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