giovedì 8 maggio 2014

SITUAZIONE ATTUALE E EXCURSUS STORICO: LA REALTÀ DI OGGI FRUTTO DELLE SCELTE DI IERI UN'ANALISI CHE PERMETTE DI INDIVIDUARE LE NECESSITÀ E GLI STRUMENTI ADEGUATI


Nel 1997 ha inizio nel nostro paese un periodo contrassegnato da un forte incremento dei valori immobiliari, comune a buona parte dei paesi Europei più ricchi. Il prezzo medio delle abitazioni nel nostro paese è aumentato, dal 1997 al 2007, del 108% nelle 13 maggiori città, e del 75% nelle città di medie dimensioni, mentre quello degli affitti nello stesso periodo è cresciuto del 71% nelle grandi città, del 48% in quelle di medie dimensioni.
Nello stesso periodo il reddito nominale non è aumentato neanche del 30%.
Questi sono gli anni delle grandi speculazioni, dei progetti faraonici, delle cattedrali nel deserto.
L’aumento dei prezzi delle case produce e ha prodotto numerosi effetti. Si verifica in primo luogo una grande redistribuzione di ricchezza a vantaggio dei possessori di capitali e a danno del fattore lavoro, e si riduce le capacità di consumo delle famiglie, che non sono propense ad usare la casa come garanzia per indebitarsi per acquistare beni di consumo. I centri storici perdono abitazioni, sostituite da uffici. Le famiglie si spostano nelle più abbordabili periferie o nei piccoli comuni situati nelle cinture delle grandi e medie città, contribuendo così a congestionare il traffico da e verso gli uffici delle città e ad aumentare i livelli di inquinamento.
Nei grandi centri aumenta l’età media dei residenti e si riduce la dimensione media dei nuclei famigliari. Si rafforza, infine, la rigidità della struttura sociale, perché aumenta il divario di prospettive e di tenore di vita tra chi ha la possibilità di ricevere in eredità l’abitazione e chi, invece, deve rinunciare ad una parte notevole del proprio reddito complessivo del ciclo di vita per comprare o affittare un’abitazione.
Nel corso degli ultimi trent’anni la quota di famiglie italiane che vivono in affitto si è dimezzata: erano circa il 40% del totale alla fine degli anni ’70, per passare al 30% un decennio dopo, e al 20% circa ai giorni nostri. L’uscita dalla condizione di affittuario non ha caratterizzato in modo omogeneo tutti i gruppi sociali, perché sono state soprattutto le famiglie a reddito medio-alto a passare dall’affitto alla proprietà.
Per chi vive in affitto, gli ultimi quindici anni sono inoltre caratterizzati da un incremento molto significativo nel rapporto medio tra canone e reddito disponibile. Fino all’inizio degli anni ’90 questo rapporto è rimasto vicino al 10%, da allora ha cominciato a crescere, quindi prima del boom immobiliare, ed oggi sfiora, in media, un terzo del reddito disponibile familiare.
L’inevitabile effetto di una dinamica delle locazioni superiore a quella dei redditi è l’aumento della quota di famiglie in affitto che si trovano in condizioni di povertà. Se definiamo come povera una famiglia con reddito disponibile inferiore al 60% del reddito equivalente medio (definizione Eurostat), fino alla fine degli anni ’80 circa una famiglia su quattro in affitto era povera. Oggi questa percentuale è salita fino a un terzo del totale degli affittuari. Viceversa, il disagio abitativo può interessare anche famiglie del ceto medio, soprattutto negli ultimi anni, in cui la crescita dei valori immobiliari e degli affitti rende difficile, per chi abbia una famiglia numerosa e non disponga di un capitale, acquistare un appartamento o sostenere l’onere di un affitto per una casa di dimensioni corrispondenti alle proprie esigenze. Per le giovani generazioni, che spesso dispongono di lavori precari con bassi salari, il boom immobiliare ha ridotto la possibilità di acquistare casa o di affittarla.
Altri due fenomeni sociali tipici degli ultimi anni presentano riflessi importanti sulle esigenze abitative della popolazione: il primo è l’immigrazione, il secondo è la crescente instabilità delle famiglie. Entrambi questi fenomeni si inseriscono in una situazione che sarebbe comunque per lo meno di allarme sociale.

Valutiamo che sia il 1993 l'anno in cui si diede inizio a questa catastrofe, quando il governo Amato di fatto abolì l’equo canone, a favore dei patti in deroga. Infine, nel 1998 i canoni di locazione furono completamente liberalizzati. L’obiettivo dichiarato era la necessità di rivitalizzare un mercato che da troppi anni ristagnava a causa dell’offerta insufficiente. L'obbiettivo reale era garantire profitti più alti agli speculatori, nonostante questi fossero chiaramente insostenibili nel lungo periodo. La contropartita formale alla liberalizzazione selvaggia degli affitti fu l'istituzione dei contratti concordati, che però non hanno trovato praticamente alcuna applicazione, essendo sostanzialmente una misura di facciata. Non c'è nessun obbligo infatti per il proprietario di stipulare contratti concordati che si rivelano decisamente meno proficui a fronte di vantaggi minimi.
Oggi lo Stato e gli enti locali si limitano sempre più ad interventi (per altro largamente insufficienti) a favore delle fasce più povere della popolazione, incapaci, per scarsità di reddito, di trovare sul libero mercato una sistemazione adeguata. Soldi pubblici che finiscono direttamente nelle tasche dei privati dunque.

Il mercato è stato liberalizzato, ma ciò non ha prodotto un incremento del numero delle abitazioni disponibili per l’affitto. Chi ne aveva la possibilità è uscito dal mercato dell’affitto, sfruttando il lungo periodo di bassi tassi di interesse. Sono così rimaste in affitto soprattutto le famiglie più deboli, che sperimentano oggi tassi di disagio abitativo significativamente superiori rispetto all’inizio degli anni ’90.

L’ultimo trentennio è poi connotato dal crollo dell’edilizia residenziale pubblica: dalle circa 20.000 abitazioni costruite all’anno con finanziamento interamente pubblico negli anni ’80, si è passati passati a 1.500 in media nei primi anni del nuovo millennio. Nello stesso periodo, la media annua del numero di abitazioni costruite con contributo pubblico è passata da 40.000 a circa 11.000.Gli strumenti diretti di intervento nel mercato degli affitti, cioè la costruzione di nuove case popolari, difficilmente potranno essere risolutivi, perché richiederebbero risorse molto ingenti e tempi non brevi.

Non è stata la crisi a creare il problema abitativo, ma vent'anni di politica criminale. Oggi la misura è colma, e solo questione di tempo (poco) perchè il collasso evidente si generalizzi in rivolta. La requisizione, l'esproprio, il blocco degli sfratti e l'autorecupero sono necessari per evitare una catastrofe sociale.

L'aumento dei prezzi delle case produce inquinamento, spopolamento dei centri storici, concentrazione della ricchezza a favore dei possessori di capitali a danno del fattore lavoro, diminuzione dei consumi, povertà diffusa.
Ecco perchè è necessaria un'opera di redistribuzione da parte dei pubblici poteri, deputati a preservare il corretto sviluppo della società.
Altrimenti dovranno essere i Movimenti a riappropriarsi di quel che gli spetta.

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